Lutto nel giornalismo: Gianni Minà

Gianni Minà ha lasciato orfani tanti di noi che crediamo nel nostro lavoro. Fu autore delle foto delle lapidi dei giornalisti caduti nella Grande Guerra usate per il libro “Martiri di carta”, offrendole gratuitamente alla Fondazione Murialdi, da vero professionista.

E diceva: “Non mi hanno più voluto in Rai per aver intervistato Fidel, Lula, Chavez. Chi dice qualcosa di diverso dal pensiero degli Stati Uniti rischia l’isolamento; speriamo qualcuno abbia la volontà di capire che non si possono più tacere le cose e che un Paese non cresce se la verità viene calpestata”.

A un convegno – ero da poco professionista – conobbi Minà e – parlando di Edoardo Galeano – mi propose di scrivere qualcosa sul suo sito Latinoamerica, avendo vissuto per un po’ da quelle parti.    

Altri colleghi hanno raccolto interviste, compiuto reportage, scritto bene e fatto buoni interventi su vari temi; ma pochi – come lui – avevano il coraggio delle proprie opinioni pur restando al proprio posto di cronista.  

Scalfari a scuola di giornalismo ci insegnò che bisogna adottare più punti di vista, voltando la testa e orientando il proprio naso verso più angolazioni: solo così si può esercitare correttamente questo “mestiere”, stimolando il giusto pensiero critico nel lettore. 

Si, mestiere, come amava definirlo Minà, che si riteneva un “artigiano” della stampa: andava a scavare nell’animo umano chiedendo permesso, non con l’ostentato cinismo di altri colleghi buonisti. 

E senza adottare mezzucci banali come riferimenti a scandali, vita privata, gossip e dicerie: le sue domande delineavano il carattere dei suoi ospiti intervistati con garbo e misura, senza scivolate né volgari giochi a effetto.

Ha avuto il coraggio di praticare e ribadire un concetto fondamentale: “la libertà di pensiero nel rispetto degli altri”, diritto sancito dall’ art. 21 della Costituzione Italiana e che ispira tutta la nostra redazione da sempre. Che la terra ti sia lieve, Gianni.