I figli so’ piezz’ e …

di Barbara Ruggiero

Figli, così non va. Guardiamoli questi giovani, ricchi di risorse, competenze, super tecnologici, figli del consenso e dell’approvazione, ma così estranei alla vita politica, sociale e relazionale della società. Sono pochi i giovani che sognano un’Italia migliore, la maggior parte di loro vuole fuggir via.

Partiamo dal mondo degli adulti, coloro che inconsapevolmente sono i responsabili della condizione dei giovani: dalla culla alla scuola, dall’università all’interminabile precariato lavorativo; il mondo degli adulti progetta e produce le nuove generazioni per soddisfare i propri bisogni e le proprie aspirazioni.

Prima bambini specchio di attese e simboli riconoscibili dalla famiglia, poi adolescenti consumatori di esperienze e prodotti suggeriti da un marketing onnipresente e ossessivo. Infine stagisti da reclutare e dismettere a seconda dei volubili trend del mercato.

E al primo malessere, una pletora di esperti. Perché l’eterno limbo in cui oggi sopravvivono molti giovani garantisce lo status degli adulti, la loro economia schiavistica, la loro psicologia egocentrica, in una parola il loro potere: la condizione giovanile è il risultato di una vera e propria congiura, dove padri e madri accolgono ogni richiesta del figlio senza battere ciglio, anzi innescando un immediato e irreversibile senso di colpa.

Sebbene, infatti, la giovane età sia per definizione una fase in cui l’identità del soggetto si ridefinisce sia in relazione agli altri che in termini intimistici, questa condizione viene amplificata considerando le attuali giovani generazioni, cresciute in un contesto socio-economico ed istituzionale anch’esso critico, suscettibile di molteplici cambiamenti e caratterizzato da incertezza anche valoriale ed identitaria.

Ma questa nuova condizione delle giovani generazioni come si interfaccia con le dinamiche istituzionali e quanto incidono nello specifico sulla crisi della partecipazione politica dei cittadini. L’impegno politico delle nuove generazioni si è, infatti, configurato nell’ultimo decennio come sempre più scarso, intermittente e superficiale.

Questo trend è talmente visibile da aver determinato l’attribuzione alle nuove generazioni di etichette quali quella di “generazione invisibile” (Diamanti 1999) o “figlia del disincanto” (Bontempi, Pocaterra 2007), caratterizzata “dall’eclissi della politica” ed un progressivo “riflusso nel privato” (Ricolfi 2002). Si fa riferimento in particolare alla crisi istituzionale ed economica che sembra senza via d’uscita.

Ma perché questi ragazzi più o meno giovani, visto che arrivano a superare i trent’anni, sono lasciati fuori dal mondo del lavoro? Perché non si batte per loro quella generazione di padri, madri e nonni che ogni giorno li protegge, li tiene in casa, garantisce loro i soldi per l’aperitivo, le vacanze, la benzina e li difende in ogni momento a dispetto di tutto?

Battersi per loro significherebbe capire che i sacrifici degli adulti (necessari per non lasciargli in eredità un debito spaventoso) e qualche passo indietro sarebbero l’unico vero regalo che possiamo fare. Perché a forza di proteggerli e di tenerli al caldo non li abbiamo mai messi alla prova, non abbiamo lasciato che si scontrassero col mondo, non abbiamo lasciato che se la cavassero da soli.

Abbiamo paura per loro e al momento di assumere un impegno verso la responsabilità, finiamo per pensare che siano acerbi e immaturi. Invece faremmo bene a metterli alla prova. Lo dovremmo fare tutti, genitori, professori e datori di lavoro. Dovremmo tutti insieme dargli occasioni per sbagliare, ma anche imparare a correggersi.

Leggiamo i dati degli ultimi 15 anni dell’Istituto di demografia della Cattolica di Milano, l’indagine spiega che l’Italia ha il più alto numero di giovani “Neet” di tutta Europa; quando per “Neet” s’intendono ragazzi fra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, spesso non hanno finito le scuole superiori o hanno mollato l’università: giovani che di fatto vivono sulle spalle dei genitori in una quantità che è un altro primato italiano.

Vediamo i numeri. Sin da primi studi del lontano 2008 i Neet italiani (categoria che fino a 15 anni fa non esisteva) erano un milione e 850mila, oggi sono due milioni e 400mila: 550mila in più. Tutti insieme riempirebbero una città grande quasi quanto Roma, e rappresentano il 22 per cento del Paese contro una media europea del 17 per cento.

In Germania e in Austria la media non supera il 10, percentuale che in Italia abbiamo solo in Trentino: che infatti di italiano ha poco. Gli ultimi dati Istat (2021) confermano le preoccupazioni: nel 2020 i giovani che non studiano e non lavorano in Italia hanno raggiunto il dato medio preoccupante del 23,3%.

Ed è il Nord a crescere maggiormente, segnando un +2,3% rispetto al 2019. Inoltre, secondo i dati Eurostat della scorsa primavera, fra le ragazze la percentuale delle Neet sale al 25,4% (oltre una su quattro). Un vuoto occupazionale dei giovani in crescita spaventosa.

La cosa accade, peraltro, mentre in Italia si registra il tasso più basso di nascite di sempre, e accade, com’è noto, nel paese dei “bamboccioni”, in cui il 66 per cento (dati Eurostat) vive ancora a casa coi genitori: il 20 per cento in più della media europea.

Umberto Galimberti ha richiamato più volte le motivazioni che spingono i giovani alla derealizzazione di se stessi, partendo da lontano, addirittura da Nietzsche che, alla fine dell’8oo, aveva messo in guardia tutti sull’arrivo del nichilismo, un fenomeno dove l’universo perde il suo ordine, dove non esiste più né il basso né l’alto né il dentro né il fuori.

Mai come oggi il nostro momento storico sente fino in fondo i morsi di questo fenomeno. Galimberti ha fissato un paradigma su cui riflettere: dal futuro/promessa siamo arrivati al futuro/minaccia. Il tema della mancanza di futuro, porta a depressioni e difficoltà nei giovani, non più come difficoltà del singolo, ma della società nel suo complesso, infatti senza promesse sostiene, si arresta il presente e senza presente non si intravede il futuro.