Otto marzo? Teniamolo a mente – Viaggio nella disuguaglianza

di REDAZIONE WELLTRIBUNE.IT · PUBBLICATO 8 MARZO 2019

Creare economie fondate su presupposti di inclusività e usare fiscalità e spesa pubblica per ridistribuire la ricchezza e ottenere maggior equità. L’8 marzo serve a questo, a non dimenticare, a dare il nostro contributo civile, a capire il mondo per cambiarlo. Se non adottiamo provvedimenti in merito, l’uguaglianza economica e di genere non diventerà mai realtàIlluminante la sintesi del rapporto Oxfam 2018: le nostre economie si fondano su milioni di ore di lavoro di cura non retribuito. A causa di ingiuste consuetudini sociali, tale lavoro è prestato quotidianamente soprattutto da donne e ragazze che si prendono cura di bambini, anziani e malati, cucinano, puliscono, attingono acqua e raccolgono legna per il fuoco. E non solo nel sud del mondo. Se tutto il lavoro di cura non retribuito svolto dalle donne nel mondo fosse appaltato ad un’unica impresa, questa avrebbe un volume d’affari annuo di 10mila mld di $, pari a 43 volte quello di Apple. Si stima che nei Paesi a basso reddito il lavoro non pagato svolto dalle donne nel solo settore sanitario valga all’incirca il 3% del Pil (fonte: A. Larger et al. “Women and Health: the key for sustainable development” The Lancet, 2015).

Il carico maggiore di lavoro non retribuito grava sulle donne povere.

Questo genere di lavoro sottrae tempo alle donne, pregiudica la loro salute e non consente loro di avvalersi delle opportunità educative, politiche ed economiche. Nel 2016 il IV uomo più ricco al mondo, Amacio Ortega, ha ricevuto dalla casa madre della catena di abbigliamento Zara dividendi annui per un valore di circa 1,3mld id euro. Stefan Persson, figlio del fondatore di H&M, si colloca al 43mo posto nella lista Forbes delle persone più ricche al mondo e ha ricevuto dividendi azionari per 658mln di euro. Era nell’industria tessile Cotton di New York che l’8 marzo del 1908 scoppiò un incendio bruciando vive le operaie della fabbrica. Nel 2019 Anju, lavoratrice del Vietnam, cuce scarpe destinati all’esportazione. Spesso lavora 12 ore al giorno, fino a tarda sera; talvolta deve saltare i pasti perché non ha guadagnato a sufficienza. Il suo salario annuo è di soli 900 $. In tutto il mondo l’economia grava sulle spalle di lavoratrici come Fatima, in Bangladesh che cuce abbigliamento per l’esportazione, subisce regolarmente abusi se non riesce a raggiungere gli obiettivi e si sente male perché non può andare alla toilette.

“Siamo cose senza valore” (Dolores, lavoratrice nel settore del pollame in Arkansas)

Grava sulle spalle delle lavoratrici di pollame statunitensi, come Dolores, affette da disabilità permanente e non più in grado di prendere per mano i propri bambini, grava sulle spalle della lavoratrici immigrate addette alle pulizie negli hotel come Mynt in Thailandia, molestata sessualmente dagli ospiti europei e costretta a sopportare per non perdere il lavoro. La disuguaglianza economica e di genere sono strettamente correlate. Il divario salariale – e soprattutto patrimoniale – è molto marcato. A livello mondiale, sono soprattutto gli uomini a possedere beni fondiari, partecipazioni azionarie e altre voci di capitale rispetto alle donne, son meglio retribuiti della donne a parità di mansione: più concentrati nelle professioni meglio retribuite e che conferiscono un più alto status sociale. Ovunque, norme sociali, convenzioni e credenze sminuiscono lo status e le capacità delle donne, giustificano la violenza e la discriminazione nei loro confronti e stabiliscono quali professioni esse abbiano – o non abbiano – il diritto di esercitare.

La disuguaglianza di genere non è frutto del caso.

Le nostre economie sono state costruite da uomini potenti a loro esclusivo vantaggio. Il modello neoliberista ha peggiorato le cose: tagli ai servizi pubblici, agevolazioni fiscali per i più ricchi, corsa al ribasso in campo salariale e sui diritti dei lavoratori sono tutti fattori che hanno nuociuto più alle donne che agli uomini. Accade sempre più frequentemente che il fatto di avere un lavoro non salvi dalla povertà (cosidetto working poor), e le più colpite sono le giovani donne. Anche nella “civilissima” Italia: teniamolo a mente

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