di REDAZIONE WELLTRIBUNE.IT · PUBBLICATO 27 NOVEMBRE 2018
Il deserto israeliano del Negev seduce con le sue infinite linee dell’orizzonte: vi si trova il più grande cratere erosivo del mondo, noto anche come Machtesh Ramon. Spesso paragonato al Grand Canyon, misura 40 km di lunghezza e varia tra 2 e 10 km di larghezza. Io sono Vittoria De Matteis, ed è da qui che inizia il mio viaggio fra i kibbutz.
Il kibbutz è stato uno degli elementi fondamentali nello sviluppo dello Stato di Israele, nazione ‘start-up’ che quest’anno compie 70 anni. Tuttavia, questa forma sociale ha conosciuto anche un periodo di declino, dovuto sia a compromessi ideologici – quali la necessità di impiegare lavoro salariato esterno – sia alla concorrenza delle imprese a carattere privato, sia – infine – a una cattiva gestione in periodi di crisi economica. Pochi i villaggi agricoli ‘integralmente’ comunitari.
Sde Boker, per esempio, è un kibbutz che fu creato dai pionieri che decisero di stabilirsi nel Negev all’inizio degli anni ’50, e famoso per aver accolto David Ben Gurion, il primo ministro israeliano che auspicava di “Far fiorire il deserto”.
Nel 1963, visitando alcuni kibbutz, Pasolini – come altri intellettuali europei – era rimasto affascinato da un’organizzazione sociale così dinamica e interconnessa. Ideale di eguaglianzae di lavoro a favore degli altri – prima della nascita dell’Unione Sovietica – il socialismo trovava la sua applicazione in un contesto borghese, agricolo e arabo, a differenza di quanto diceva Marx, secondo cui la rivoluzione avrebbe attecchito tra i proletari, in una realtà europea e industrializzata. Il membro della comunità, detto kibbutznik, riceve – al posto di denaro – i frutti del lavoro comune, evitando così alla collettività di cadere in quello che viene considerato ‘consumismo occidentale’. Nei circa 300 kibbutz israeliani, le loro fabbriche e le loro aziende agricole arrivavano a costituire il 9% del prodotto industriale (8mld di $) e il 40% del prodotto agricolo (oltre 1,7mld di $).
Salvaguardare il pianeta, attraverso l’amore per la natura: combattendo la desertificazione e gli incendi, migliorando l’equilibrio del carbonio nell’ambiente, mitigando il cambiamento climatico e accrescendo la biodiversità, dove il rimboschimento non solo previene l’erosione del suolo, ma forma una barriera contro i gas nocivi, riduce la velocità del vento e aiuta a combattere l’effetto serra.
Ma il kibbutz nasce anche dalla volontà di abolire la proprietà privata e le istituzioni ad essa legate, ivi inclusa la famiglia nucleare. I piccoli kibbutznik fin dalla nascita mangiano e vanno a scuola nella casa dei bambini. Dormono con i genitori, i fratelli e le sorelle, e trascorrono con loro il tempo libero, ma l’educazione e le attività quotidiane sono gestite da insegnanti nominati dal kibbutz, che tendono a garantire ai bambini delle fonti di sicurezza emozionale ed economica a cui la famiglia nucleare non è sempre in grado di provvedere.
Il matrimonio continua comunque ad essere importante per la salute emotiva dei membri della comunità, oltre a “produrre” piccoli kibbutznik: le coppie della comunità sono molto affezionate ai loro figli e viceversa. Dal momento poi che i genitori non controllano i loro figli dal punto di vista sociale ed economico, è meno probabile che il rapporto tra genitori e figli venga deteriorato da punizioni.
Anche i membri più anziani traggono naturali vantaggi dall’organizzazione del kibbutz: sono incoraggiati a non abbandonare il loro lavoro ma – al tempo stesso – sanno che nei periodi di malattia le loro esigenze economiche e sanitarie possono essere soddisfatte.
E in Europa, le esperienze vissute come forme di difesa territoriale, alimentare e unitaria vengono da qui: sono i nostri esperimenti sociali dei GAS (gruppi di acquisto solidale), del co-housing e perfino del car-sharing. Malgrado tutti i problemi mediorientali, i kibbutz resistono nonostante le critiche, soprattutto delle comunità ortodosse ebraiche. Il salario individuale dei kibbutznik è compreso tra 180 e 600 euro, non possiedono auto personali, non pagano affitto, luce e gas. Hanno accesso libero e gratuito alle cure sanitarie e all’istruzione (anche quella universitaria), consumano i pasti in una mensa comune, usano una sola lavanderia, indossano abiti simili tra loro e fanno la raccolta differenziata. Usano quindi un’economia collettiva dove la cassa comune serve a mandare avanti le necessità e i costi dell’intera comunità. Viene spontaneo mettere in relazione il modello sociale israeliano del kibbutz e l’attuale società italiana e occidentale. Quanto è realisticamente esportabile? Gli effetti della crisi economica, non solo in Italia o in Grecia, li stanno pagando le fasce più deboli: in alcuni paesi europei non c‘è più una cultura del bene comune, percepito unicamente come costo, visti i tagli indiscriminati ai servizi pubblici. Qui non è utopistico che ogni membro lavori secondo le sue capacità ed inclinazioni, e che non venga richiesta passività, ma che si debba – anzi – partecipare ad ogni decisione del consiglio: “Chi di noi è venuto in Israele per abitare in un Kibbutz ne è tornato più maturo” dice un giovane kibbutznik. “E’ un’esperienza da fare, almeno una volta”. E Deborah, kibbutznik romana, venuta per stare 6 mesi e fermatasi da 5 anni, dice che “per chi ha bambini, cani e ama la natura è un modello di vita ideale”.
Questo modello sociale si traduce in nuove tecnologie, nuovi posti di lavoro, nuove prospettive di vita e nuove risorse: oltre all’agricoltura, sono stati realizzati anche progetti manifatturieri, lavorazioni di materie plastiche e di elettronica, applicati al welfare.
Se Ramat HaNegev, Aravà e Besor, per esempio, sviluppano metodi avanzati di produzione della vegetazione in regioni critiche, Ra’anana offre servizi terapeutici-educativi a persone con gravi disabilità e alle loro famiglie, rendendo più accessibili le strutture sportive. E nel settore municipale, costruisce edifici, strutture e parchi per le persone con disabilità, per facilitare la loro integrazione.
Tanti i progetti sviluppati nei kibbutz: quest’anno il Giro d’Italia ha preso il via – per la prima volta nella sua lunga storia – da Israele, per ricordare il grande campione Gino Bartali e le sue azioni straordinarie, quando le sue pedalate salvarono centinaia di ebrei: il progetto lanciato per celebrarlo, consiste nella realizzazione di una pista ciclabile che porterà il suo nome, dentro una delle più belle foreste israeliane.
Per curare l’autismo, si è scoperto che più l’ambiente ospedaliero è uguale all’ abitazione del paziente, e più se ne trarrà beneficio. Il centro medico di Alut, nel quartiere di Malha a Gerusalemme, ha affidato ad un kibbutz il progetto di attrezzare il centro con spazi che rievocano la casa dei soggetti autistici, attrezzi per la fisioterapia, il gioco e un giardino posto sul terrazzo dell’edificio.
I membri di un kibbutz sono molto attenti a selezionare persone che possano essere compatibili con lo stile di vita della comunità: quindi aperte, socievoli e disposte a vivere lontano da tutto. Molti hanno tagliato voci costose come la sala da pranzo della comunità, e hanno cercato nuovi flussi di finanziamento, come affittare immobili e gestire hotel. Molti stanno cercando di mettere quei soldi nell’high tech, un’industria in cui Israele svolge un ruolo fuori misura: ciò è dovuto in parte a un grande pool di talenti di veterani dell’esercito esperti di tecnologia e alle migliori università del settore.
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